La Netflix della cultura italiana?

Paolo Giovine
6 min readMay 14, 2020

--

Da qualche ora sappiamo che il Ministero per i beni e le attività culturali e per il Turismo ha stanziato 10 milioni di euro per costruire una “piattaforma digitale per la fruizione del patrimonio culturale e di spettacoli”; il Ministero prefigura anche un “obbligo di fornitura di contenuti” in capo agli operatori culturali, pena l’esclusione da alcuni benefici. Il progetto da qualche settimana era annunciato dal ministro Franceschini, che in audizione alla Camera lo ha raccontato come “la Netflix della cultura italiana, che consenta di offrire online ciò che non si può usufruire dal vivo, naturalmente a pagamento”.

NETFLIX, quella vera

Netflix è un’azienda fondata nel 1997 da Reed Hastings e Marc Randolph in California. All’inizio forniva un servizio di noleggio di dvd per corrispondenza, sfruttando l’efficienza del servizio postale americano: ordinavi il film, il postino te lo consegnava.

Nel 2005 ho avuto la fortuna di partecipare ad un incontro con Hastings a Stanford, dove raccontò di come Netflix stesse pensando di iniziare ad usare internet: l’idea all’epoca era di fare dei download notturni su un piccolo apparecchio dedicato, le connessioni erano ancora troppo lente per uno streaming in tempo reale. Hastings però dedicò buona parte del tempo a prendere in giro Microsoft, che presentava la sua “IP Television”: disse, ironico, “è davvero fondamentale, per il progresso della specie, poter vedere sempre la stessa cosa, identica, via cavo, satellite e IP” e poi, serio, “il futuro sarà di chi produrrà contenuti originali, nuovi, nati per alimentare un nuovo modello di distribuzione”. Netflix iniziò ad usare lo streaming davvero nel 2007, lo stesso anno in cui Steve Jobs mostrava al mondo il primo iPhone.

Netflix ha raccolto circa 3,1 miliardi di dollari di finanziamenti, si è quotata molto presto (nel 2002, il titolo oggi vale credo 30 volte almeno), oggi ha 183 milioni di utenti paganti in giro per il mondo e fattura oltre 20 miliardi di dollari all’anno. Il suo valore di mercato è vicino ai 200 miliardi di dollari.

Netflix non vende singoli contenuti, ma un servizio di accesso alla sua piattaforma: si entra e si vede ciò che si vuole, per una cifra mensile inferiore al costo di due serate al cinema. Per questo ha iniziato a guadagnare solo recentemente, il modello ha bisogno di un’audience enorme, e prevede un’incessante alimentazione della macchina con contenuti originali (serie, film, documentari): nel 2019 Netflix ha investito 15,3 miliardi di dollari in produzione, per il 2020 erano previsti 17,3 miliardi, ovviamente la pandemia cambierà anche questi numeri (ma non quelli degli abbonati, che sono saliti di 16 milioni, facendo schizzare il titolo ai massimi storici).

NETFLIX, quella ministeriale

Come detto, si pensa di farla con 10 milioni, forse non tantissimi per costruire una piattaforma che voglia competere sui contenuti a pagamento con la sua omonima ispiratrice, oltre che con Sky, Amazon Prime, Disney+, Apple Tv, DAZN, Infinity, Chili. Presumibilmente la competizione dovrebbe essere anche contro RAI, che peraltro qualche canale gratuitamente dedicato alla cultura lo avrebbe anche.

Chili, ad esempio, è una piattaforma nata in Italia nel 2012; dotata di discreti investimenti (intorno ai 50 milioni credo) nel 2019 ha raggiunto i 50 milioni di fatturato, perdendone ancora 15; tutto normale, come per Netflix serve raggiungere una massa critica di pubblico (non solo italiano) per trovare un equilibrio economico. Chili vende on-demand, non ha, che io sappia, produzione originale ed ha appena raggiunto un accordo con TIM per alimentare TimVision (e quindi raggiungere una massa critica di clienti del primo operatore telefonico nazionale). Presumibilmente nei prossimi mesi raccoglierà nuovi investimenti.

Insomma, 10 milioni sono pochi. O meglio, sono ridicolmente pochi. E allora?

CONSIGLI NON RICHIESTI

Io mi ricordo Rutelli annunciare la svolta del turismo nazionale, Italia.it: un progetto nato male e finito peggio, che ci regala oggi un sito neppure adatto ai telefonini e costato una cifra imbarazzante (per la verità meno del sito dell’INPS). Era la “piattaforma per rilanciare il Bel Paese, Italy”.

Non ci sono “piattaforme di Stato” che monetizzano contenuti, perché è un mercato complicato, perché ci vuole una continuità di lavoro resa impossibile dai continui cambi di rotta delle risorse pubbliche, perché le competenze necessarie sono altrove e non al Ministero. Generalmente, se c’è da monetizzare qualcosa lo sta già facendo un privato, che produce gli spettacoli che hanno un pubblico pagante prevedibile, attirano gli sponsor, possono essere rivenduti all’estero.

Notoriamente ogni anno spendiamo dei soldi per sostenere lo spettacolo con il mitico FUS, che mantiene in vita tante istituzioni culturali che non sarebbero diversamente sostenibili economicamente (tutta la lirica, buona parte dei teatri); forse sarebbe ora di sistematizzare un lavoro di assessment di queste istituzioni, e capire esattamente quali possano essere le azioni che si devono fare per allargare le audience, gestire una presenza digitale, aprire le collezioni ad utenti internazionali, usare la tecnologia in maniera propria. Spesso in queste istituzioni non esiste un vero controllo di gestione, si decide sulla base di “sensazioni” (è una citazione, ahimè); spesso il pubblico è immaginato, non si dialoga, non si interagisce, non si va oltre l’idea di “conservare”.

Questo è il lavoro che va finanziato, così da finalmente stabilire delle priorità e promuovere azioni davvero sistematiche: servirà digitalizzare nello stesso modo tipologie di oggetti omogenee, e allora definiremo degli standard, delle buone pratiche digitali, facendo in modo che chiunque possa lavorare in un contesto che lo mantenga sempre “interoperabile” con gli altri; definiamo tassonomie nuove, semplifichiamo quelle esistenti. Perché serve Google per fare Google Arts&Culture? Davvero non si possono fare poche cose significative, costruendo intanto una infrastruttura condivisa che possa poi crescere davvero (“scalabile”), su cui si possano progressivamente innestare nuovi progetti?

Dotiamo tutte le istituzioni culturali di un accesso al GARR, la rete nazionale usata dalle Università; colleghiamole, permettiamo loro di viaggiare davvero veloci online, così da poter poi decidere insieme che esistono alcuni nodi dove posizionare degli archivi digitali, dove il Media Asset Management potrà essere condiviso, dove intanto tutti gli studenti, insegnanti, ricercatori, potranno trovare milioni di informazioni.

I soliloqui vanno evitati, come dice bene il direttore del Museo Egizio di Torino “le istituzioni appartengono alla comunità”; se sono chiuse la restituzione alla comunità non può che essere fatta attraverso strumenti nuovi, ma occorre costruire la capacità interna di usarli. Quante istituzioni culturali italiane hanno un sito internet decente e funzionante su uno smartphone (“responsive”)? Quante hanno nominato un capo delle attività digitali giovane e competente (anche non giovane, purché non sia un ex-qualcosa “messo al digitale per non fare danni”, altra citazione)? Quante hanno un piano strategico misurabile e realistico?

Il Metropolitan di New York ha oltre 250 milioni citazioni su Wikipedia, ed ha disseminato milioni di immagini sui social (partendo da Pinterest, che usa strutturalmente); come spiega bene Maria Elena Colombo stare online significa avere idee, risorse preparate ed una visione chiara sulla funzione dei diversi strumenti. Si possono mettere intere collezioni online, o definire dei percorsi, o affidare agli utenti la rielaborazione di quello che imparano, vedono, cercano. Si possono fare tante cose, ma consapevolmente.

Quello che non si può fare è, “pronti via, facciamo il digitale, tutti sulla piattaforma”.

IN CONCLUSIONE?

Non facciamo, per favore, la Netflix italiana; non serve a nulla.

Piuttosto, diamo a tutti la possibilità di capire bene quali siano le azioni più corrette per stare a contatto con la propria comunità di riferimento, per aprire un dialogo con il territorio, le scuole. Lavoriamo perché ciascuno sia in grado di scegliere uno strumento, da un canale instagram ad un sistema di live streaming, a condizione che poi lo possa usare al meglio.

Se siamo convinti che possiamo produrre cento spettacoli belli e cercati dal pubblico, allora tutte le piattaforme che ho citato sopra saranno ben felici di fare accordi per produrli, distribuirli e venderli sulle loro piattaforme, in tutto il mondo; spettacoli belli, realizzati da professionisti, con le luci giuste, l’audio perfetto, un montaggio, una regia. Digitalizzati correttamente, pronti per lo streaming, in grado di osservare gli standard tecnici universali dei broadcaster.

Se non c’è un pubblico sufficiente, lavoriamo su cose più semplici e meno costose, ma seguendo delle regole: su tiktok o instagram la differenza è tra quelli capaci e quelli no, come quasi sempre nella vita. Servono idee nuove, operazioni mirate; serve condividere le esperienze, realizzare dei network, non andare da soli; fare dei calendari che evitino le sovrapposizioni, costruire un palinsesto comune.

Io penso ai miei amici musicisti, che da settimane si sbattono su facebook con dirette bellissime, affidandosi alle donazioni spontanee di chi intercetta la loro arte: aiutiamoli a pensare nuovi formati, liberiamoli da burocrazie inutili, apriamo per loro spazi nuovi. E se qualcosa diventa “virale”, allora seguirà un suo percorso naturale e, forse, qualcuno inizierà a pagare per vedere uno spettacolo, anche online.

Infine, la pandemia forse passerà, ma i suoi effetti rimarranno. Torneremo ad occupare gli spazi, ma ogni allarme, vero o procurato, provocherà cancellazioni, rinunce, rinvii. Serve un sistema in cui sia ovvio lavorare sempre per pubblici che stanno davanti ad un palco e contemporaneamente a casa, per studenti che camminano in una sala per davvero o virtualmente; nulla sarà come prima, ma potrebbe anche essere meglio: dipende da noi.

--

--

Paolo Giovine

È facile risolvere i problemi quando non sono i tuoi.