La scuola dopo la pandemia

Paolo Giovine
13 min readDec 9, 2020

--

Photo by Deleece Cook on Unsplash
  1. Premessa

Io sono un privilegiato: in questi mesi sono riuscito a gestire la “didattica a distanza” delle mie tre figlie senza troppi problemi, ho una qualche confidenza con i computer e la possibilità di lavorare tranquillamente da casa. La partenza è stata molto faticosa, a tratti caotica, poi si è trovato un modus operandi stranamente simile per tutte e tre; stranamente perché accomuna una dodicenne che ha attraversato prima e seconda media, una quattordicenne che è passata dalla terza media ad una prima liceo e una sedicenne che si è trovata tra la seconda e la terza liceo.

Tutte e tre sopportano diverse ore di collegamento video ogni giorno; hanno orari analoghi alla scuola in presenza (8/14); trascorrono buona parte del loro tempo ascoltando una lezione frontale dell’insegnante di turno, a volte accompagnata da qualche materiale condiviso sullo schermo.

La pandemia non ha cambiato programmi e consuetudini: ci sono le interrogazioni, scritte e orali; si votano i rappresentanti di classe; i quadrimestri sono sempre due; si studia tanto e si assegnano compiti anche per il giorno successivo. Però è cambiato profondamente il contesto, la scuola si è calata nell’emergenza affrontandola come una momentanea interruzione di una esperienza che, tra qualche mese, si prevede tornerà uguale a prima.

Le polemiche di questi mesi si sono concentrate sulla riapertura delle classi e sulla gestione dei problemi di sicurezza: le istituzioni hanno comprato migliaia di banchi con le rotelle e milioni di mascherine, distribuito hardware più o meno adatto, cercato di dotare di un collegamento internet le famiglie che ne erano sprovviste. Movimenti di genitori e studenti chiedono di dare la priorità alla riapertura delle scuole, politici prendono decisioni non sempre comprensibili.

E poi ci sono tantissimi ragazzi che sono stati espulsi dal sistema scolastico, perché la didattica a distanza non è universalmente accessibile: servono tecnologia e competenze di base, un ambiente adatto alle lezioni, uno sforzo non alla portata di tutti. Il problema non riguarda solo l’Italia, in tutto il mondo la crisi ha aumentato il divario sociale anche nella scuola, ha reso più fragili i fragili, ha escluso chi era stato incluso, spesso con grande fatica.

Il problema più grande ha messo tutto in secondo piano, l’obiettivo unico è quello di riaprire le scuole e tornare alla “normalità”; va detto che riaprire le scuole significa anche dare un pasto sano a bambini che in casa non lo ricevono e accorgersi di situazioni complesse che difficilmente emergono in una chiamata video, a volte con i genitori in ascolto nella stessa stanza. E va anche detto che per tantissimi genitori, meno fortunati del sottoscritto, avere i figli in casa è complicato: per il lavoro, le abitudini, le più diverse e comprensibili difficoltà personali.

2. Prima della pandemia

Io ho frequentato scuole tradizionali, la mia maturità classica è coincisa con il pareggio di Caniggia e il rigore fatale di Maradona dei mondiali italici; utilizzavo la tecnologia solo per giochicchiare, e neppure tanto. Ho concluso l’Università senza un telefono in tasca, con qualche ora al giorno di televisione, a volte trash a volte no; ho scritto la mia tesi su Wordstar, leggevo anche Stampa Sera. Mia madre era un’insegnante elementare, mio papà un agente di commercio, in casa c’era qualche libro, sono aumentati velocemente a causa mia; io sono stato il primo laureato della famiglia, ma la cosa non mi ha traumatizzato.

Non so davvero giudicare la mia educazione: non lo so se studiare il greco mi sia servito o se ho imparato di più dai libri che compravo per piacere mio. So che ho iniziato a lavorare improvvisando, imparando sul campo, facendomi spiegare le cose da qualcuno che le sapeva. Ero curioso, abbastanza veloce, propenso ad accantonare Dante per concentrarmi su Excel.

Ho studiato alcune cose per interesse, altre perché dovevo; non ho un ricordo particolare di nessuno dei miei professori; alcuni erano simpatici, altri frustrati, altri ancora, semplicemente, timbravano il cartellino. Probabilmente sono stato fortunato, non ho avuto problemi particolari a trovare una strada da solo, senza nessuna spinta o pressione domestica; non dovevo lavorare per aiutare la famiglia, nessuno voleva cacciarmi di casa.

Con la didattica a distanza sono tornato a scuola, mi sono seduto ogni tanto ad ascoltare; ho guardato, un po’ di nascosto, le mie figlie mentre chattavano amabilmente durante una lezione; le ho viste in ansia per una interrogazione e consultare il registro elettronico per scoprire il voto.

In generale, ho riconosciuto la mia stessa scuola in un mondo che è totalmente cambiato; le mie figlie usano Netflix e Spotify, producono contenuti sui social, ascoltano un sacco di musica e ignorano la carta stampata, con la sola eccezione di quella che si usa per i libri (scolastici e non). Latino, greco, matematica, versioni, temi, voti, pagelle, esercitazioni: un continuo dejavù dei miei anni ’80, quelli con Vito Catozzo e Tracy Spencer.

Ho anche una buona frequentazione delle chat dei genitori, persone certamente diverse ma, soprattutto nei licei, abbastanza simili a me: spesso hanno frequentato quelle scuole, hanno una professione soddisfacente, esprimono opinioni ragionevoli e danno il loro contributo. Mia madre conosceva i miei professori, forse qualche genitore, ma non ricordo grandi confronti; oggi anche la classe è un piccolo social network, dove, soprattutto in questo anno strano, qualche dibattito si è protratto più del dovuto e qualche posizione è stata meno accomodante. Però, in generale, tutti sembrano a loro agio, alcuni più votati al successo della prole, altri più disincantati ma attenti, altri ancora presenti per dovere genitoriale; alcuni proteggono i figli, altri li controllano, altri ancora li accompagnano. Ma la scuola è per tutti una istituzione “data”, un fatto acquisito, come la fotosintesi o la rivoluzione copernicana (ndr, non ho mai incrociato dei terrapiattisti).

3. Il disagio

Ecco, lo confesso, io invece provo un po’ di disagio, perché penso che la scuola dovrebbe decisamente cambiare, aggiornarsi, modificare la sua impostazione. Mi annoiano mortalmente le discussioni sui voti, sullo svolgimento del “programma”, sulla giusta quantità di compiti durante le vacanze. E questo perché credo che sia un modo sbagliato di trascorrere il nostro tempo, in un mondo che inizia sempre più a fregarsene dell’istruzione “formale” e a scegliere altre strade, a volte ragionevoli a volte molto meno, per selezionare lavoratori, classe dirigente, leader.

Non è semplice spiegare questo disagio, e rischia anche di sembrare ingeneroso verso le tante persone preparate che ogni giorno si dedicano con capacità all’educazione dei nostri figli; per questo ho cercato conforto in studiosi più in gamba e competenti di me, che si occupano del futuro e ne prevedono le traiettorie, rafforzando in me ogni giorno di più la convinzione che molto si debba cambiare, ed in fretta.

4. Il mondo dopo la pandemia

In un bellissimo libro, No Planet B (There Is No Planet B), Mike Berners-Lee (il fratello di Tim) elenca le sfide che il mondo, per sopravvivere, dovrà affrontare nei prossimi anni: parla di cibo, ambiente, energia, viaggi, ricchezza, lavoro, tecnologia. Cerca di spiegare il problema e di fornire soluzioni pratiche, argomentando con attenzione particolare laddove postula un cambiamento quasi epocale del modo di pensare. Sono le sfide che attendono tutti noi, con cui i nostri studenti si confronteranno, drammaticamente, nella loro età adulta; sfide che oggi dovrebbero essere centrali in qualsiasi percorso di formazione.

Berners-Lee, alla fine del libro, prova ad elencare le competenze da cui dipendono la sopravvivenza del nostro mondo e della nostra specie; le elenco anche qui, perché mi sembrano essenziali in qualsiasi sistema educativo contemporaneo.

Prospettiva d’insieme: i ragazzi devono avere uno sguardo ampio sulle cose; ad esempio, saper valutare bene l’impatto di una loro azione nel breve, medio e lungo termine; capire se una cosa buona localmente possa rivelarsi sbagliata a livello globale.

Empatia globale: i nostri figli devono vivere come propri gli altrui problemi, ad esempio lo sfruttamento di loro coetanei dall’altra parte del mondo. Le nostre azioni sono collegate e nessuno può guardare solo al suo cortiletto; veniamo da una pandemia che sembra partorita dalla mente di Terry Gilliam, dove un viaggiatore può essere responsabile del destino di un’intera popolazione: sentirsi parte in causa di una grande collettività è cruciale.

Pensiero rivolto al futuro: non è un mondo in cui si possa perdere tempo, improvvisare, programmare a vista. Occorre anticipare i problemi, avere una visione di lungo periodo e il coraggio di rinunciare a qualche vantaggio a breve per migliorare strutturalmente sulla distanza. Studiare per passare l’interrogazione del giorno dopo, o per vincere un confronto elettorale, non serve a nulla, è controproducente, è sbagliato: bisogna costruire dei progetti, discuterli, affrontare la complessità.

Pensiero complesso e complicato: non ci sono strade semplici né soluzioni facili. Il futuro richiede una capacità di ragionamento complesso, che si sviluppa con il dialogo, il confronto, la capacità di mescolare saperi e discipline diversi, l’elaborazione di problemi articolati.

Apprezzamento della dimensione locale, di ciò che è semplice, piccolo: l’obiettivo esistenziale non può essere l’accumulo di miliardi di dollari o il governo di multinazionali: i modelli vanno cambiati, a partire dalla scuola. L’obiettivo personale sarà sostenibile in ragione dell’impatto positivo che ciascuno di noi può avere sulla propria comunità; sarà strategico favorire un ragionamento lento ma efficace, decisioni etiche e consapevoli.

Autoriflessione: nel mondo degli “influencers” sarà fondamentale sapersi guardare dentro, trovare la propria dimensione e la propria ambizione, non vivere la vita di qualcun altro.

Pensiero critico: la capacità di esaminare le cose nel contesto corretto e di saperle mettere in prospettiva; è l’unica difesa contro il proliferare di fake news, demagoghi e aspiranti tiranni, che ciclicamente fanno capolino nella storia recente.

Pensiero coordinato: non serve il verticalismo spinto, il “più grande esperto di una cosa sola” non salverà mai questo mondo. Servono persone capaci di mettere insieme le conoscenze, di confrontare le possibilità della tecnologia con il pensiero filosofico, l’intelligenza artificiale con l’etica; la specializzazione spinta ha senso solo se si riesce a trovare una sintesi, come forse ci hanno insegnato questi mesi difficili: non è sufficiente avere grandi medici se la politica è incompetente.

Come si insegnano queste cose? Probabilmente partendo dalle sfide, riflettendo sugli scenari, cercando soluzioni. Non basta conoscere la storia o la letteratura o la fisica, bisogna metterle insieme e usarle per capire come convivranno 10 miliardi di persone, dove troveremo le risorse per sopravvivere, quale idea del mondo possa avere un esito felice.

5. Dentro il Novacene

James Lovelock, scienziato centenario che continua a immaginare il futuro nel suo laboratorio in Cornovaglia, racconta in Novacene. L’età dell’iperintelligenza (Novacene. The Coming Age of Hyperintelligence) come sia del tutto normale che l’evoluzione della specie umana passi dal rapporto con una “Superintelligenza”, la stessa di cui si occupa Nick Bostrom in un altro ottimo libro.

La tesi di Lovelock è che anche la superintelligenza artificiale farà parte dell’ecosistema, aiuterà gli uomini a preservarlo e ne garantirà la continuità: perché nessuna intelligenza superiore inquinerebbe i mari o disperderebbe gas nocivi nell’atmosfera; piuttosto, orienterà le nostre scelte nella direzione migliore, anche “governando” in qualche modo la specie umana. L’idea di questo scienziato, nato nel 1919, è che si possa continuare un percorso evolutivo e migliorare la nostra specie semplicemente imparando ad estendere le nostre capacità, e facendoci aiutare dalla migliore tecnologia possibile. Questo dovrebbe fare la scuola, iniziare a riflettere sulle opportunità fornite dal sostegno alla ricerca, dall’uso virtuoso delle macchine, dalla costruzione di una visione positiva del futuro. Internet serve a questo, a costruire un’intelligenza collettiva, che migliora il nostro mondo; l’educazione serve a capire che i modelli veri non sono le Big Tech: come in tutte le corse all’oro gli avventurieri precedono l’arrivo dei veri coloni, quelli che costruiscono una nuova civiltà e imparano a governare il futuro.

6. Diventare ricchi

Perché è così diffuso il racconto di una scuola che serve essenzialmente a: trovare un lavoro, accumulare ricchezza e vivere nella totale distanza da quello che succede nel mondo? Perché i “role model” continuano ad essere startupper milionari o imprenditori che detengono fortune quasi incalcolabili, spesso riparate in paradisi fiscali più o meno esotici? Emmanuel Saez e Gabriel Zucman in Il trionfo dell’ingiustizia (The Triumph of Injustice) spiegano molto bene come la sperequazione sia il male contemporaneo, e come solo un’azione volta a limitare l’accumulo di patrimoni finanziari possa migliorare davvero il nostro mondo. Il ridicolo dibattito di questi giorni sulla (sacrosanta) proposta di tassa patrimoniale è figlio della totale ignoranza in materia di equità fiscale, cavalcata da chi vuole mantenere lo status quo e aumentare così il divario tra i pochi che concentrano ricchezza e potere e i tantissimi che campano a fatica. Alla fine del 2020 il 50% dei cittadini americani (della Grande America di Trump!) possederanno circa il 10% della ricchezza nazionale, mentre oltre il 25% della ricchezza sarà nelle mani dell’1%; è urgente che qualcuno spieghi alle mie figlie che questa dinamica è fuori controllo, e che da Reagan in poi (e non da prima) tassare le grandi ricchezze è diventato impopolare, anche tra i grandi democratici “amici dei lavoratori”. L’educazione delle mie figlie dovrebbe stimolare l’ambizione di restituire ricchezza ad una fetta crescente della popolazione, partendo da quelli che oggi vivono sotto la soglia della povertà; “perequazione” dovrebbe diventare una materia di studio essenziale.

7. Migrazioni e genetica

La mobilità dopo la pandemia sarà ancora più elitaria: si continueranno a spostare i possessori di ricchezza, per lo più finanziaria, mentre i governi avranno pretesti sempre più efficaci per respingere le migrazioni e preservare la “sovranità dei popoli”. Per capire meglio il confine tra politica e stupidità andrebbe distribuito gratuitamente Cosa rispondere a un razzista (How to Argue With a Racist) di Adam Rutherford, brillante divulgatore inglese che smonta i principali luoghi comuni sulla razza e spiega l’isopunto genetico, ovvero il momento della storia remota di ciascuno di noi in cui tutta l’umanità è stata nostra antenata. Ebbene sì, anche il leghista più ostinato ha discendenze africane, arabe e cinesi. Messa in ordine la storia, sarebbe poi utile ragionare sul futuro, ad esempio in compagnia di Anna Meldolesi che in E l’uomo creò l’uomo racconta CRISPR, ovvero la tecnica che sta modificando la biologia e ci sta mettendo di fronte alla frontiera della manipolazione genetica, con tutte le sue implicazioni etiche e sociali. Io mettevo a germogliare i fagioli, tra qualche anno gli studenti potranno modificare il DNA di una pianta durante una lezione, e interrogarsi sui limiti, i rischi, le opportunità.

Di questo e altro parlano futurologi come Jim Al-Khalili o Yuval Noah Harari, che ha recentemente scelto anche la strada della “graphic novel” per riprendere la sua storia sulle origini dell’uomo, da Sapiens a Deus, e mettere l’accento sull’accelerazione delle sfide che attendono le prossime generazioni.

Esiste un mondo che pensa che il futuro sia un ibrido tra uomini e macchine, per aumentare le nostre capacità naturali o per sfidare la mortalità; lo ha raccontato bene Mark O’Connell in Essere una macchina (To Be a Machine), un viaggio affascinante tra scienza e allucinazioni, tra uomini che introducono dei sensori sotto la propria pelle ed altri che con l’ibernazione cercano di preservarsi fino a quando la tecnologia non li riconsegnerà a vite immortali. Le cose che Netflix racconta con Black Mirror sono attualità, forse non ancora nelle nostre città ma certamente in luoghi raggiungibili con qualche ora di volo.

8. Quanti

Carlo Rovelli, dopo aver incrinato le nostre certezze sulla linearità del tempo (L’ordine del tempo) ha cercato di raccontare con Helgoland il mondo della fisica quantistica, che sta cambiando radicalmente la nostra percezione dell’universo. Capire che ad un mondo di sostanze si sta sostituendo un mondo di relazioni è fondamentale e strategico, sia che si debba costruire un nuovo computer piuttosto che cercare il vaccino risolutore. Tempo fa Alessandro Vespignani, lo scienziato che ha costruito i modelli matematici per frenare Ebola, si lamentava di come in Italia sia socialmente accettata l’ignoranza della matematica e della fisica: persone possono ricoprire ruoli importanti anche senza capire banali regole matematiche, cosa anacronistica e, come visto in queste settimane, pericolosa.

Per capire il futuro i Quanti di Rovelli contano almeno come i Proci di Omero o i Monatti di Manzoni; non sarà semplice, non sarà banale, ma uno spazio per la storia di Werner Heisenberg andrà trovato.

9. Google e la scuola

Google ha annunciato piani faraonici per favorire la digitalizzazione del nostro paese, per aiutare gli insegnanti ad acquisire le competenze necessarie, per dotare le aziende di connessione, cloud e e-commerce, insomma per “proiettarci nel futuro”. Google, e tutte le Big Tech, regalano alle scuole e a tutti noi software in cambio dei nostri dati, che sono processati, elaborati e rivenduti istantaneamente a centinaia di aziende (guardate ad esempio il precisissimo elenco delle aziende che trattano i vostri dati se vi iscrivete al neonato portale di Feltrinelli Education: click su riservatezza in basso a destra, e poi su fornitori: impressionante vero?). Ora, Google fa di più: quasi regala istruzione, alta formazione, corsi avanzati; non importa se fai il liceo o l’università: se frequenti questi corsi, e dimostri di aver acquisito delle capacità, puoi fare un colloquio con Google altre grandi aziende internazionali, ed ottenere un posto di lavoro.

Google pensa che, in fondo, non smetterai mai di studiare, e che forse non è male se studi tutti i giorni lavorando ed eviti “perdite di tempo”. Potrebbe non avere torto, ma c’è un ma: Google è un’azienda che persegue il profitto, accumula ricchezze in svariati paradisi fiscali, e la nostra democrazia non ha come obiettivo formare cittadini che trovino un lavoro il prima possibile: forse è bene spendere al meglio un po’ di anni ad immaginare come migliorare il mondo; mondo che certamente potrà includere le mappe di Google Maps, ma certamente anche qualcosa di più importante.

10. Conclusione

Io credo che la scuola vada ripensata, radicalmente. In ordine sparso: io credo che le classi non debbano essere necessariamente formate da coetanei, che ogni studente dovrebbe poter imparare con il suo ritmo e le sue modalità, che i voti andrebbero aboliti e che la felicità degli studenti dovrà essere direttamente proporzionale alla loro crescita individuale. Penso che sia stupendo dormire un’ora in più come avviene durante la didattica a distanza, che i banchi, con o senza rotelle, dovrebbero servire sempre meno, che imparare ad usare al meglio la tecnologia dovrebbe essere ovvio in qualsiasi percorso.

Vorrei che a scuola si parlasse di come scegliere e preparare il cibo, di come imparare la lealtà attraverso la cultura sportiva, di quanto sia fondamentale durante una pandemia mettere al centro la cultura, e non la retorica della cultura.

Vorrei continuare a leggere anche Franzen, Tolstoj, Hrabal, Fitzgerald, Fortini, Bazell e DFW, e farmi raccontare dalle mie figlie di come coltiveremo sprecando meno suolo, di come mangeremo dando retta a Tim Spector o di come torneremo ad abbracciarci sotto il palco di un concerto rock.

Servono una scuola innovativa, inclusiva e spinta da una travolgente attitudine al miglioramento del mondo; più fantasia, meno burocrazia e una attenzione costante alla crescita personale degli studenti, all’aumento continuo della loro consapevolezza.

PS:

Ho citato quasi tutti autori maschi, e questo racconta di un limite della mia generazione, educata per lo più da maestre, mamme, nonne, professoresse: donne incredibili confinate alla sola tradizione orale e pressoché assenti dai giornali, dalle recensioni, dal dibattito politico, sociale e scientifico. Mi aspetto che la scuola educhi le mie figlie a cambiare queste cose.

Non voglio che conoscano a memoria tutte le capitali mondiali, voglio che sappiano chi sono Jacinda Ardern e Wangari Maathai.

--

--

Paolo Giovine

È facile risolvere i problemi quando non sono i tuoi.