Scuole chiuse, che fare?

Paolo Giovine
5 min readMar 2, 2020

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Questa mattina le chat dei genitori sono in fibrillazione: “non riesco a collegarmi con il registro elettronico”, “non riesco ad aprire il file che mi ha mandato l’insegnante”, “non so che programma installare”.

All’improvviso l’emergenza del CoronaVirus ha costretto scuole e genitori ad abbandonare ogni pregiudizio e a tuffarsi nel mondo della “scuola digitale”; peccato che in Italia ci si tuffi in una piscina semivuota, con tutte le conseguenze del caso.

Qualche settimana fa, quando viaggiare era ancora ordinaria amministrazione, sono stato al BETT di Londra, la più grande fiera al mondo sull’utilizzo della tecnologia a scuola: sempre più grande, sempre più frequentata. Anche da volonterosi insegnanti italiani e da chi sta cercando di portare in Italia un approccio sano all’uso della tecnologia in un contesto didattico: pochi ma buoni.

In una delle nuove aree erano concentrati i padiglioni di molti paesi che istituzionalmente hanno dei programmi su queste cose; ovviamente l’Italia, pur avendo uno dei sistemi educativi pubblici internazionali più corposi, era assente. Non c’era, ufficialmente, nessuno.

La cosa in sé potrebbe anche non essere clamorosa (non c’era neppure San Marino), ma riflette un atteggiamento cronico del nostro sistema “ministeriale”, che si disinteressa metodicamente di quanto si sta facendo nel mondo su queste cose; salvo poi rincorrere un’emergenza, promettendo misteriose piattaforme o lanciando delle call al mondo tecnologico, senza nessuna regola che non sia “gratis”.

“Mobilitazione” è la parola d’ordine del nostro Paese, che ogni volta riappare magicamente: ci si affida al “cuore” nazionale, al volontariato, allo spirito di sacrificio dei cittadini. Se già non è stato dato, attendo il numero dell’ennesimo SMS solidale, il classico deus ex-machina.

Questa mattina un nostro socio cinese ci scrive che in Cina tutte le scuole sono chiuse (hanno prorogato le vacanze di Capodanno), ma quasi tutte tengono regolari lezioni on line, così come le scuole private che le famiglie pagano ai figli per aiutarli con l’esame di fine anno, il temibile Gaokao; ovviamente tutte le aziende sono passate in smart working. In Cina, tra un topo condito e l’altro, hanno avviato pesanti investimenti pubblici e privati su queste cose, da anni; si considerano molto indietro rispetto ai benchmark internazionali ufficialmente indicati (la Finlandia, ad esempio) ma è noto come l’attuale regime stia intensificando gli sforzi per accelerare su questi fronti. Io, a scanso di equivoci, continuo a preferire l’imperfetta democrazia nostrana, ma ho usato l’esempio cinese per fissare un concetto: se ti sei preparato, allora fai bene le cose, sennò improvvisi, e fai danni ulteriori.

Evidentemente se dovessimo tenere le scuole chiuse per molte settimane qualcosa andrà fatto: immaginare che insegnanti ignari di qualsiasi tecnologia possano all’improvviso usarla, e bene, pare difficile. Anche perché verrebbe fatto in assenza di qualsiasi metodologia e controllo: non ci sono prassi predefinite, non ci sono regole, non c’è un minimo di coordinamento (neppure a livello locale: questo è il paese dei decreti e delle circolari, ma qualcuno che si faccia carico di una sintesi non c’è quasi mai, e se c’è è tipicamente destinato al sacrificio).

Non basta consegnare gli strumenti e sperare in bene; anzi, non solo non basta, ma non si può, perché è sbagliato per gli studenti e perché c’è il rischio di aumentare inutilmente il casino. Bisogna affrontare la cosa pragmaticamente, e stabilire chi può fare cosa, e poi agire di conseguenza, a livelli diversi.

Al primo livello metto una banalità: assegnare i compiti come si fa per le vacanze estive. Intanto fare una programmazione non giorno per giorno, ma nell’ipotesi peggiore (altre due settimane di stop? tutto marzo?); immaginando gli studenti a casa con qualche strumento se disponibile, senza dare per scontato che youtube o google drive siano competenze diffuse. In Italia non si è fatta nessuna politica per accrescere le competenze digitali delle famiglie, e io mi imbatto quotidianamente in leoni da tastiera che non saprebbero neppure installare un plugin di un browser.

A questo livello sarebbe utile intanto fare una mappa del potenziale del cosidetto BYOD (ovvero Bring Your Own Device, che tradotto significa un sistema in cui si usano pc, tablet o smartphone di proprietà degli studenti o delle loro famiglie): perché il livello successivo richiede una minima conoscenza tecnica, così da stabilire che cosa sia nelle possibilità di tutti. La scuola ha il dovere di essere inclusiva, se uno studente non ha una connessione internet a casa e neppure una connessione dati serve preliminarmente trovare una soluzione; e se invece ha solo un telefonino e ha la possibilità di usarlo come hotspot, allora serve verificare che non gli costi una schioppettata (ndr, basterebbe chiedere alle TLC di dare giga illimitati e tethering gratis per il tempo necessario, anche solo ai loro abbonati in “target scolastico”).

Immaginando che si trovi una quadratura del cerchio tecnico di base, allora si procederà al livello successivo, quello in cui alcuni insegnanti selezioneranno dei contenuti, altri ne produrranno, altri dialogheranno in rete con i loro studenti: ma tutto dopo averlo sperimentato con i colleghi ed aver deciso esattamente che cosa fare e come. Aiuterebbe usare questo tempo anche per la formazione dei docenti, concentrarsi su questo in attesa che le classi si riempiano di nuovo: qui possono intervenire tutti i venditori di tecnologia sollecitati dai ministeri, ma lavorando con gli insegnanti e non lasciandoli improvvisare con i ragazzi, che non se lo meritano.

Infine, il livello più complesso, quello in cui si fa davvero innovazione, anche approfittando di una circostanza così infelice: studenti che approfondiscono argomenti e condividono materiali, attenzione a nuove sfide e discipline. Le gite scolastiche sono ferme? proviamo una visita virtuale (penso a Expeditions di Google, forse si può anche guidare da remoto o in una VPN?). Gli editori possono promuovere incontri online con autori e studiosi (penso al Salone del Libro)? I broadcaster possono aiutare nella produzione di contenuti? (penso alla Rai ma anche ai miei amici di Deejay). Se gli strumenti sono disponibili e tutti sono raggiungibili, allora contano solo le idee, e potrebbe essere utile farsi aiutare anche da chi tutti i giorni raggiunge e intrattiene i nostri ragazzi: perché un conto è fare una lezione frontale, altro è preparare una video lezione o confrontarsi online.

E poi, finita l’emergenza, che tutti si prendano l’impegno di ragionare su come mettere la tecnologia al servizio della didattica, ma per davvero.

Photo by Alex Radelich on Unsplash

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Paolo Giovine

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